1922 – Carzan-a – 1932
Al me pajìs (Il mio paese), edizione litografica in dialetto di Caresana. Vercelli 1981
Al me paìs (Il mio paese), edizione numerata in dialetto vercellese, Vercelli 1986
La prima stesura di Al me pajìs (Il mio paese) è stata scritta nel 1980 da Giovanni Carlone nella sua lingua natale: il dialetto di Caresana. Poco dopo ne aveva realizzato una traduzione (Al me paìs) in dialetto di Vercelli, la città in cui si era trasferito all’età di dieci anni e dove aveva trascorso il resto della sua vita, consapevole delle differenze tra i due idiomi. Incoraggiato dai giudizi lusinghieri dei lettori vercellesi, aveva infine scritto una versione italiana del racconto: non una traduzione letterale, ma una rielaborazione del testo, talvolta ampliandolo qua e là.
Rileggendo, a tanti anni di distanza, la prima versione di Al me pajìs, ne ho assaporato la freschezza, che in parte deriva dal consapevole utilizzo da parte dell’autore di parole ed espressioni simili a quelle da lui conosciute durante l’infanzia, il tempo in cui il racconto si svolge. Così, mi è venuto il desiderio di effettuarne una nuova traduzione in un italiano il più fedele possibile all’originale, benché meno “letterario” e “adulto” di quello adottato da mio papà; questa nuova versione forse aiuterà chi volesse cimentarsi nella rilettura, e riscoperta, dell’idioma “caresanino”, di cui questo libro è rara e preziosa testimonianza.
Mariagrazia Carlone
Da Al me pajìs , cap. 1: Con occhi di bambino
Il paese: una rapida fotografia
Rivedo ancora, con occhi di bambino, lo stradone del paese: attraversandolo da un capo all’altro mi pareva proprio di arrampicarmi su una salita per poi andar giù da una discesa. Macchine, ne passavano di rado: e quelle poche che arrivavano si facevano sentire da lontano strombettando e alzavano nuvole di polvere. Arrivavano spesso dei barocci tirati dai buoi che seminavano ogni tanto del letame che fumava; passavano anche dei carretti e dei calessini tirati dai cavalli. Più che tutto si vedeva della gente che andava a piedi o che pedalava su delle biciclette robuste e che scampanellava a tutt’andare per farsi sentire dai bambini che giocavano lungo lo stradone, in due, in tre, tanti insieme. Ma il più straordinario a passare era il tramvài. Arrivava, con un baccano, grosso, lucente, sbuffando; e veniva avanti adagino sui binari, per fermarsi accanto ai portici, vicino alla piazza della chiesa grande. Quando arrivava, era sempre uno spettacolo per noi bambini: smettevamo di giocare perchè eravamo curiosi di vedere chi arrivava – da Vercelli, da Casale o dai paesi –; erano tutti carichi di borse e di fagotti. E poi c’eran quelli che, dopo avere aspettato sotto i portici che arrivasse, ci salivano per mettersi in viaggio. E il tramvài – con la sua locomotiva lustra e squadrata e tutte le sue vetture – partiva, allegro, com’era arrivato.
Al principio del paese, venendo da Pezzana o da Stroppiana, nella piazza di San Bernardino – chiusa dal palazzo delle scuole nuove e dalle prime case che davano sullo stradone – i binari facevano dei giri: lì il tramvài faceva le manovre. Proprio in faccia allo stradone, nel bel mezzo di questa piazza, c’era il monumento ai Caduti: era curiosa la sua punta mozza, con i tagli a parte a parte, coperti di vetro colorato. Guardando dal monumento verso il paese, si vedeva il campanile della chiesa grande, grosso, alto; e, più lontano, il campanile piccolino di Santa Caterina; dopo, c’erano i campi. Mi son fermato poco nella piazza di San Bernardino; c’erano le scuole nuove – dove ho fatto dalla seconda alla quarta (la prima ho avuto tempo di farla ancora nelle scuole vecchie, in Municipio); dunque ho dovuto attraversarla tante volte: ma non ci stavo un minuto più del necessario. La piazza dove, invece ci fermavamo a giocare – bisticciando anche qualche volta – e dove ci trovavamo per metterci d’accordo per andare in giro per il paese e nei campi, era quella della chiesa grande. Il bello di quella chiesa – per noi – erano dei piloni grossi e alti tutt’attorno al piazzale, con delle catene lunghe tra l’uno e l’altro: ci sedevamo in mezzo e facevamo l’altalena; saltavamo i piloni o ci facevamo l’equilibrista sopra. Dalla piazza – con la schiena voltata alla chiesa – si vedeva lo stradone che andava avanti, a sinistra, fino alla chiesetta di San Giorgio, proprio in fondo al paese per andare alla Motta e a Villanova; a destra, invece, c’era una strada corta che andava in Canonica; poi, di lì, girando a sinistra si arrivava all’asilo, e a destra, in Castello; in fondo c’era la chiesetta di San Rocco. Era proprio in queste strade qui, più tranquille dello stradone, che potevamo fermarci a giocare quando volevamo. Nella bella stagione, lì, si sentivano per tutto il giorno i nostri gridi, mentre facevamo i nostri giochi più belli – che non costavano niente o ben poco –: la “settimana” – ci giocavano le bambine ma anche i maschi – e bastava avere un pezzetto di mattone per segnarla in terra e un coccio da tirare; il “cirquìto”, che si giocava con le biglie di mattone colorato e quelle di vetro delle bottiglie di gazzosa – magari, averci anche quelle d’acciaio del ciclista o quelle di marmo –; le “figurine” – di cartone o di latta coi giocatori del foot ball o i corridori – e le tiravamo verso il muro delle case (vinceva chi arrivava più vicino) o per aria, gridando “Bianco!”, “Figura!” (vinceva chi indovinava: “bianco”, se si vedeva il rovescio; “figura”, il diritto con la figura); la “palla” – non s’era mai finito di imparare tutti i giochi che si potevano fare con la palla; i “quattro cantoni”; “nascondino”; e degli altri ancora. Ma il più bello era un gioco che per noi bambini era magnifico e per i grandi mica troppo: la “cirimèla”. Per giocarlo bastava avere due pezzi di legno per ciascuno: uno lungo per battere e uno corto – tagliato dalle due parti – da far volare; segnavamo per terra una riga, per cominciare il gioco, e poi, uno dopo l’altro, dopo aver appoggiato il pezzo corto su una pietra, ci battevamo sopra col pezzo lungo e cercavamo di farlo volare più lontano che potevamo; c’era uno che segnava dove arrivava la cirimèla dell’uno e dell’altro; e noi, giù ancora a battere; vinceva chi arrivava più lontano dopo quei tanti colpi. Qualche volta, purtroppo, quel pezzettino di legno andava dove voleva lui: sulla testa della gente che passava o che era ferma sull’uscio a chiacchierare o, peggio ancora, faceva partire qualche vetro; e allora ci gridavan dietro mentre scappavamo; e se c’erano dei vetri rotti, toccava ai nostri pagarli e a noi, prenderle.
(Traduzione letterale dal dialetto di Caresana di Mariagrazia Carlone, 2016)